Fiera di San Valentino | Cenni

Cenni storici

Descrizione

LA STORIA
tratto dal libro di Giordano Dellai intitolato “Pozzo, la Friola e la contrada degli Scaldaferro” del 2008

Giovanni Mantese, illustre storico della Chiesa vicentina, non ebbe dubbi: la chiesa campestre di San Valentino è di indiscutibile origine benedettina. Ed in effetti, in assenza di prove certe, è molto alta la probabilità che questa chiesetta, situata a circa un Km a nord della chiesa parrocchiale di S. Maria, a poche centinaia di metri dall’argine destro del Brenta lungo il quale correva la “Strata”, un’antica strada che andava ad Angarano e nell’altra direzione forse portava a Padova, sia stata fondata dal monastero dei SS. Felice e Fortunato di Vicenza, che in epoca medievale aveva in mano buona parte del paese di Pozzo e la giurisdizione della chiesa di S. Maria, cappella della pieve di Bressanvido. Questa chiesa ed il suo santo titolare hanno ben presto ispirato agli abitanti locali l’organizzazione il 14 febbraio di ogni anno di una festa di grande richiamo, che negli ultimi decenni è diventata una fiera conosciuta ed apprezzata anche oltre i confini regionali.

Ma quando è stata costruita la chiesetta di San Valentino? E da quanto tempo da queste parti si pratica una festa così popolare? Proviamo a rispondere a queste domande, cominciando dalla prima. Sicuramente questa chiesa è stata edificata in età medievale e molto probabilmente prima del 15 agosto 1311, quando il vescovo Sperandio avrebbe consacrato la nuova chiesa di Pozzo, intitolata a S. Maria, “fondata e dotata di cinque campi dal Comune di Pozzo in contrada della Croce e di San Valentino”. Dunque, a giudicare da questo documento, giuntoci in copia non sicura, il toponimo “San Valentino” esisteva già all’inizio del Trecento, un particolare che farebbe pensare alla presenza già in quell’anno di un capitello o di un piccolo oratorio dedicato al santo. Sarebbero stati i monaci vicentini di San Felice a costruire la chiesetta di San Valentino, santo molto venerato dall’ordine benedettino che dal VII secolo ne gestì anche le spoglie nella basilica di Terni, la città umbra di cui Valentino fu vescovo fino alla morte, avvenuta il 14 febbraio 273 per ordine dell’imperatore Aureliano.

 

Fin dalle sue origini la chiesetta di San Valentino fu gestita dal parroco di Pozzo, che non a caso si definiva “rettore delle chiese di S. Maria e di S. Valentino”. L’importanza di questa chiesetta sarebbe comprovata da un particolare che riguarda il patrimonio immobiliare della parrocchia: su 21 campi vicentini posseduti nel già citato inventario del 1447, ben sette, praticamente un terzo, quasi tutti arativi con piccoli lotti di prato e bosco, erano situati nella contrada di San Valentino. In quell’anno la chiesa era sicuramente esistente perché i monaci di San Felice e San Fortunato di Vicenza investirono il prete albanese Alessio di Giorgio del ruolo di rettore delle chiese di S. Maria e S. Valentino di Pozzo. Inoltre, qualche anno prima, in un testamento del 6 febbraio 1442 la testatrice ordinò agli eredi di versare due lire per la riparazione della chiesa di San Valentino di Pozzo. Più tardi, il 15 agosto 1528, in occasione della concessione della parrocchia di Pozzo al “prè” Giovanni Tamburini, la chiesetta di San Valentino fu definita “cappella”, un termine che indicava una realtà minore rispetto alla “chiesa” di S. Maria.
Ma un particolare ancora più rilevante, in merito stavolta alle origini della festa per il santo, si ricava da un documento del 1517. Don Gianantonio Priante, parroco di Pozzo dal 1499 al 1528 ma anche notaio del paese, tra le sue carte notarili lasciò anche una specie di rendiconto delle entrate e delle uscite di quell’anno iniziato male perché in gennaio era morto suo padre. Dopo la Memoriade danarj… habudj da diverse persone, in tutto 60 troni e 7 marchetti, c’era anche la conta dei Danari spesi, piena di varie voci, tra cui spiccano 2 troni e 10 marchetti per il pesse per la festa de S. Valentin e 3 troni per il pan per dita festa.

Una festa importante, dunque, organizzata dal parroco di Pozzo, che tirava fuori dalle sue capienti tasche una cifra considerevole, 5 troni e 10 marchetti in tutto, per procurare del cibo non tanto per sé (sarebbe stata un’esagerazione), quanto piuttosto (è il caso di pensarlo!) per i parrocchiani e i foresti che anche il 14 febbraio di quel 1517 erano accorsi a celebrare il santo tanto amato, avevano riempito in ogni ordine di posto l’interno della piccola chiesa, avevano pazientemente aspettato nel sagrato il loro turno di entrata, avevano gustato un po’ di quel pane e del pesce premurosamente acquistati dal parroco, convinti di far parte dello stesso popolo di fedeli, di essere tutti una chiesa sola, di godere al bisogno dell’intercessione e dell’aiuto di San Valentino. E, soprattutto, convinti che quella di San Valentino a Pozzo era una festa, una festa vera, non solo religiosa, durante la quale, tra una chiacchiera e l’altra, tra un boccone di pane ed un assaggio di pesce, capitava pure di parlare d’affari, del mondo, della vita. Una festa che in quel 1517 rappresentava il prodromo dell’attuale fiera di San Valentino.
D’altronde la chiesetta, e la relativa festa, di San Valentino rendevano molto alla parrocchia di Pozzoleone. In occasione della visita del vescovo di Vicenza, mons. Michele Priuli, svoltasi venerdì 23 settembre 1583, il parroco di Pozzo, don Marcantonio Stoppato, protestò che al reddito totale della parrocchia, di circa 200 ducati, non si dovevano assolutamente aggiungere i 50 provenienti dall’oratorio di San Valentino “che erano suoi!”, evidentemente frutto di un impegno particolare dovuto anche all’organizzazione di una festa tanto sentita.
Comprensibilmente incuriosito dalle parole del parroco di Pozzo, tanto più che i suoi predecessori non l’avevano mai fatto in virtù dell’ancora vigente giurisdizione benedettina, il vescovo di Vicenza mons. Michele Priuli si recò a visitare questa chiesa di San Valentino, definita da don Marcantonio “di devozione massima” e quindi degna di tutta l’attenzione possibile. Il vescovo non risparmiò le disposizioni, segno che non tutto era di suo gradimento: bisognava porre una mensa di marmo sull’altare maggiore, altrimenti non si sarebbe potuto celebrare, poi procurare allo stesso altare tovaglie, croce e candelabri ed una pianeta rossa con finimenti; c’era anche un altare laterale, marmoreo e non consacrato, che aveva bisogno di una pala e, sul parapetto, di croce e candelabri. Il vescovo raccomandò anche di mettere grate di ferro sulle finestre, riparare il tetto e collocare una pila di acqua benedetta vicino alla porta. Nella chiesa si celebrava messa solo alla prima domenica del mese più altre tre volte all’anno, ma in queste occasioni accorreva una gran massa di fedeli.
Dunque tanta gente, tanti fedeli. Tutti a celebrare il loro santo preferito, a vivere intensamente una festa tra le più attese nelle case di Pozzo e del comprensorio. Al parroco don Giovanni Tomasoni il 3 maggio 1641 presumibilmente baluginavano gli occhi nello spiegare al vescovo Bragadin quante opere meritorie si potevano ascrivere ai benefici effetti di quella chiesetta: È annessa à questa Chiesa (di S. Maria)la Chiesa campestre di San Valentino che era anticamente la Parochiale, ove si celebra ogni prima del mese et i mercordì, et altri giorni per esserci gran divotione et concorso non solo di quelli del luoco, ma d’altri luochi circonvicini. Tanto zelo, se da un lato rendeva comprensibile il lapsus storico (la chiesetta di San Valentino non è mai stata la parrocchiale di Pozzo), dall’altro contribuiva a rendere la chiesa sempre più conosciuta e frequentata: dalle quindici messe annue si era passati alle circa settanta, grazie all’opera di un parroco che durante la sua permanenza a Pozzo (1629-1652), oltre alla ricostruzione della parrocchiale di S. Maria, si era dedicato anche alla promozione dell’oratorio di San Valentino.

Passavano gli anni, si succedevano i parroci di Pozzo, ma la fama della chiesetta e della festa di San Valentino rimaneva intatta. Verso la fine del Seicento, il 25 aprile 1687, don Salvatore Piva disse di celebrare nella chiesa di San Valentino ogni prima domenica del mese ed in altri quattro o cinque giorni feriali, sempre che il tempo ne permettesse l’accesso, e poi quando la devozione del popolo non lo imponesse; nella festa di San Valentino in particolare vi si celebravano molte messe per il grande concorso di popolo.
A quel tempo la chiesa di San Valentino aveva un unico altare con una pala di legno raffigurante un’immagine di San Valentino, c’era una croce di oricalco e quattro candelabri di legno; secondo il delegato del vescovo che la visitò, bisognava provvedere l’altare di tutte le cose necessarie ad una decente manutenzione; vi era anche una reliquia di S. Valentino martire nel tabernacolo di legno all’interno di un panno di seta contenuto in un vaso di vetro con autorizzazione del 19 novembre 1676 ed il sigillo del vescovo Giuseppe Civran del 14 febbraio successivo; la sacrestia era posta dietro l’altare, mentre all’interno della chiesa, sulla destra guardando l’uscita, si potevano vedere alcuni ex voto ed antiche immagini dipinte, dall’altra parte la finestra era senza alcun telo.
A fine secolo, dunque, la chiesetta di San Valentino era un po’ in declino. Non a tal punto, però, da non essere scelta dal parroco don Piva come sua dimora eterna: Adì 20 Ottobre 1700. Il Molto Reverendo signor Don Salvador Piva Parroco di questa Chiesa di Pozzo rese l’anima a Dio… e il suo corpo fu sepolto nella Chiesa di S. Valentino di questa parrocchia appresso il campanile il giorno susseguente 21.
Parroci sepolti, ma anche parroci eletti in questa chiesa così importante per la vita di Pozzo: il 26 febbraio 1712 il notaio Bortolamio Cerato fu Pellegrino testificò la decisione della convicinia di Pozzo, riunita nella chiesa di S. Valentino, di scegliere entro una gamma di 21 concorrenti don Marcantonio Alessi quale nuovo parroco di Pozzo. E tra una convicinia e l’altra, tra una decisione da prendere ed una riunione da organizzare, agli amministratori comunali di Pozzo restò il tempo e l’opportunità di osservare lo stato di degrado della chiesa, che abbisognava proprio di una ristrutturazione o, addirittura, di una riedificazione. Si optò per la seconda ipotesi: nel 1749 “la pietà dei devoti eresse” la rinnovata chiesa di San Valentino, che da quel momento vide staccarsi il suo cordone ombelicale con la chiesa di S. Maria, divenne di proprietà comunale, patrimonio della comunità civile.

La grossa novità fu notata anche dal canonico Bartolomeo Maria Rigati, che il primo maggio 1769 coadiuvò il vescovo di Vicenza mons. Marco Corner, in visita pastorale a Pozzo. Mentre il vescovo si tratteneva in canonica, il convisitatore fu mandato a visitare l’oratorio pubblico di San Valentino “appartenente alla comunità del luogo”. La chiesa aveva un aspetto ben diverso in confronto alla precedente visita vescovile: l’altare era in pietra dotato di portatile in mensa, ornato e provvisto di tutto; davanti all’altare c’era una custodia contenente le ossa di San Valentino; nella chiesetta si celebrava la messa ogni prima domenica del mese, nella festa della Resurrezione e a Pentecoste da parte del parroco di Pozzo o di un suo sostituto; l’oratorio era pulito e riparato, aveva un piccolo campanile da cui pendevano due campane. Il convisitatore trovò da ridire solo sulla sacrestia che sospese, per avere trovato due croci rotte e lacere e nessuna suppellettile, dato che quando vi si celebrava tutto l’occorrente era portato dalla chiesa parrocchiale.
Il passaggio da parrocchiale a comunale dell’oratorio di San Valentino accentuò il carattere mondano della relativa festa. Se ne accorse anche il parroco di Friola, don Nicola Lovato, che il 28 ottobre 1872 scrisse alla Curia vicentina chiedendo, a promozione della devozione del Sacro Cuore di Gesù, di istituire una festa per l’apposita nascente congregazione di Friola, da porsi in febbraio nella “domenica della sessagesima”. A giro di posta la Curia diede il suo assenso, ma il 20 gennaio 1873 lo stesso parroco sostenne che bisognava spostare la festa alla terza domenica dopo Pentecoste, giorno non interessato da altre solennità o distrazioni varie. Per motivare l’istanza, subito accettata dalla Curia, don Lovato scrisse: In quella domenica si fa qui presso nella vicina parrocchia di Pozzoleone la solennità detta di S. Valentino che è propriamente una distrazione grandissima per le parrocchie vicine, a segno tale che dopo la prima Messa, non si ha più nessuno alla Chiesa propria, tutti portandosi a quella solennità che viene ad esser come una fiera.
La festa continuava a svolgersi la domenica dopo la ricorrenza di San Valentino, giorno in cui nei primi anni del Novecento in un prato davanti alla chiesetta accorreva una grande quantità di persone e si ballava allegramente all’aria aperta. Ma dalla Curia di Vicenza si guardava con una certa apprensione ai progressi di questa festa, ormai non più prettamente religiosa. Nel febbraio 1928 il vescovo mons. Ferdinando Rodolfi diede ordine al parroco di Pozzoleone di sospendere le sacre funzioni e di chiudere l’oratorio di San Valentino, se dall’autorità civile non fosse stato impedito “il disordine del ballo pubblico in occasione della sagra”. L’autorità civile, ovvero il podestà Giandomenico Rigoni, non ottemperò alle disposizioni del vescovo e dunque al parroco non restò altro che obbedire agli ordini del suo superiore.
I fatti di quella domenica 19 febbraio 1928, filtrati dal più classico punto di vista “governativo”, sono raccontati in un articolo del giornale “Vedetta fascista”, apparso mercoledì 22 febbraio ed intitolato “L’esito grandioso della Sagra di S. Valentino”: L’altro giorno ebbe luogo la Fiera di S. Valentino. Non è esagerato l’aggettivo di grandiosa perché veramente enorme fu il concorso di popolo fin dal mattino alla Mostra-Fiera. Frequentati ed ammirati gli stand specialmente della Ditta Cannonieri di Thiene, della Ditta Grazioli di Gazzo Padovano ed altre per le macchine agrarie e casearie esposte. Nel pomeriggio poi alla tradizionale Sagra accorse una infinità di persone di ogni ceto, di ogni età, con ogni mezzo. Come fu già pubblicato nel giorno del Santo (14 scorso) seguì con numerosissimo concorso la “festa religiosa”. Nessuno spettacolo o gioco si esercitò in detto giorno per il doveroso rispetto alle Funzioni religiose. I raggiri per l’ostruzionismo della caratteristica ricorrenza non hanno raggiunto gli scopi reconditi o indiretti. La giornata magnifica col suo sole festoso irradiava i vividi colori delle macchine esposte, le smaglianti reclames dei circhi, delle giostre, dei baracconi, le allegre maschere non attese e numerose e le eleganti toilettes del sesso femminile.
In questo turbinio di giochi e di colori ecco, inatteso, il colpo di scena: Fu generale sorpresa il constatare al mattino che il piccolo Oratorio non era stato aperto. Per antichissima tradizione, la cui data di nascita è ignota, anche nella domenica successiva alla festa religiosa, la Chiesetta è tenuta aperta. Il popolo di cento paesi conviene nei prati e v’è chi non dimentica, anche in giornata di allegria, il sentimento religioso e prima anche di recarsi ad un divertimento qualsiasi, ballo compreso, non omette di fare una visita al modesto Santuario e offrire la spontanea elemosina. Era noto a tutti del Comune, e (cosa da rilevarsi senza commenti) “a tutti gli intervenuti dei vari paesi”, che non sarebbe stata aperta la Chiesetta “perché si doveva ballare”. Si diceva che fosse irreperibile la chiave.
Il redattore del giornale littorio si preoccupò allora di giustificare il comportamento dei più intraprendenti: La protesta divenne indignazione, il popolo si aggiudicò il sacrosanto diritto acquisito del rispetto alle tradizioni secolari, si sentì offeso anche nelle intime convinzioni religiose, si aperse la porta della Chiesetta e come una fiumana la invase. E l’affluenza fu numerosissima e costante per tutta la giornata. Diversa la visione del parroco don Carlo Camelotto, che nei suoi registri annotò: Il podestà Giandomenico Rigoni fece aprire forzatamente le porte dell’oratorio nella domenica della sagra.

Intanto nell’articolo della “Vedetta fascista” continuava il tentativo di giustificare quello che agli occhi dei più credenti poteva apparire come un sacrilegio: Si provvide tosto alla sorveglianza ed a dirigere il movimento a mezzo di giovani appartenenti alla Milizia. Come fu sempre gli oboli dei fedeli piovevano sull’Altare ed alla sera furono conteggiate ben lire 455 che saranno destinate ad arredamento della Chiesa con oggetti di rito di cui è del tutto disadorna e sprovvista. Inutile dire che tutti i baracconi, gli spacci, i giocolieri ecc., compresa la Sezione Combattenti che con ottima orchestra gestì l’unico ballo su ampia piattaforma, una pesca di beneficenza, un posteggio biciclette ed altro, fecero ottimi incassi. I due circhi si sono riuniti in uno solo che si fermerà per alcune sere nella piazza del paese. Nessun inconveniente si verificò.
Per ultima, poco consona ad uno stile giornalistico nonché tendenzialmente allusiva, l’arringa finale: Unico rilievo, gravissimo perché generale e da parte anche “di tutti i forestieri”, fu l’anacronismo di cui sopra al quale, del resto, senza scrupolo di profanazione il popolo ha trovato rimedio. Si hanno pure documentate prove di propagande fatte “in altri siti” per il boicottaggio della nostra antichissima, tradizionale Sagra, ma le cose sono note “in altri siti ancora” e… potranno avere degli strascichi. Per ora ci basta che sia nota la verità e ciò perché non venga subdolamente e progressivamente diffusa la voce che di S. Valentino fra qualche anno non sarà più festeggiata la ricorrenza. Possiamo anzi, sin d’ora preannunciare che ne sarà sempre maggiormente curato lo sviluppo.

Se per l’organo di informazione fascista la decisione di tenere chiusa la chiesa di San Valentino fu puro “anacronismo”, per il vescovo di Vicenza era una cosa ben fatta, mentre l’apertura del sacro edificio stante il suo diniego odorava terribilmente di profanazione. Si verificò una grave vertenza tra l’autorità religiosa e quella civile, alla fine della quale, come annotò senza indulgere a trionfalismi don Camelotto, il podestà fu costretto a riconoscere il suo torto e a riparare al suo errore. Il primo giugno 1930 a Pozzoleone venne persino il vescovo per rimediare i gravi torti subiti dal parroco e compiere un rito “di riparazione” del sacrilegio nella chiesetta di San Valentino.

Dal 1956 la fiera di San Valentino si è trasferita nel centro del paese di Pozzoleone, assumendo definitivamente una dimensione civile e connotandosi particolarmente per l’esposizione di macchine, attrezzi e prodotti agricoli. Nel frattempo la chiesa di San Valentino è tornata sotto l’amministrazione diocesana, è stata sconsacrata ed ora versa in stato di sostanziale abbandono.

Ultimo aggiornamento: 05/08/2024, 12:08

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