Descrizione
LO SVOLGIMENTO
tratto dal libro di Giordano Dellai intitolato “Pozzo, la Friola e la contrada degli Scaldaferro” del 2008
Lo scrittore Giovanni Lanaro, nativo di Longa di Schiavon, nel suo libro “Si viveva così” del 2006 ha pubblicato il racconto “A San Valentin”, che descrive al meglio la magia della fiera quando ancora si svolgeva davanti alla chiesetta.
«Già dopo la Befanasi pensava alla grande festa. Gli interessati preparavano per tempo le cose, gli oggetti da porre invendita. In casa e soprattutto nei filò nelle stalle, quando le serate iniziavano al calar del sole e si protraevano per ore ed ore, tanto da sembrare interminabili, se ne parlava a lungo ricordando i fatti salienti dall’anno precedente. Ogni capofamiglia faceva i conti delle cose e degli attrezzi di cui doveva fornirsi per la futura stagione. San Valentin veniva a cadere in un momento particolare dell’anno, cioè sul finire dell’inverno; per questo costituiva una specie di apertura della nuova annata. La festa era sorta come commemorazione religiosa in onore del santo; però poi col passare del tempo assunse l’aspetto di manifestazione profana; per questo era chiamata anche fiera di San Valentin. I due momenti vennero espressi con un termine tipicamente veneto: sagra, cioè festa paesana in cui si mangiava la sagra.
Quella di San Valentino aveva una risonanza molto vasta, perché vi affluiva gente da tutti i dintorni e da molti chilometri. I miei parenti venivano giù apposta dalle colline della pedemontana marosticense. Non c’era gelo, neve o pioggia che rallentasse la fiumana dei partecipanti, perché ogni anno questa festa aveva qualcosa di nuovo, d’interessante e di attraente soprattutto per il mondo contadino. Si era in un’epoca in cui il lavoro in campagna era l’unica occupazione da cui ogni famiglia traeva il suo sostentamento.
Gli interessati partivano di buon ora e poi percorrevano scorciatoie fra i campi per giungervi per tempo: sgalmare ai piedi, cappello in testa ed un grande tabarro scuro con cui avvolgevano tutto il corpo. Qualcuno si serviva ancora di quello grigio verde, retaggio della grande guerra, ormai consunto e con vistosi rattoppi. Ci si difendeva dal freddo con calze fatte a mano ed un maglione prodotto dal paziente lavoro a ferri durante il filò. I ragazzi sfoggiavano il berrettone trovato nella calza della Befana. Quel giorno i poveri utilizzavano tutti i percorsi possibili attraverso la campagna, mentre i benestanti tiravano fuori il biroccio e con la cavalla più bella si recavano alla festa. Solo qualcuno utilizzava il carretto tirato dall’animale ragliante, comunemente chiamato Nino. Lo si riempiva di amici e parenti ed poi tutti insieme facevano il percorso fra risate, frizzi e canti. Era una specie di viaggio d’avventura, come andare all’estero per noi oggi. Quella mattina ero svegliato di buon ora dal fracasso delle ruote dei veicoli sulla strada sassosa. Pochi utilizzavano la bicicletta, perché questo mezzo non era diffuso come oggi e poi costava quasi l’equivalente di due, tre mesi di lavoro che corrispondeva al costo di una mucca, allora considerata unità di conto negli affari di una certa importanza. Un giovane in bici faceva sempre colpo su una ragazza in cerca di moroso.
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Quand’ero ragazzetto, la festa si divideva in due momenti: quello religioso e quello profano ed erano ben distinti. Al mattino c’era la messa, nel pomeriggio la processione con le reliquie del santo. Quel giorno un sacerdote a fianco dell’altare dava la benedizione a chi lo chiedeva. La devozione al santo era antichissima; forse risaliva al primo Medio Evo, a giudicare dalla modestia dell’edificio. L’interno era un po’ più grande di una stanza; entrarvi era sempre un’impresa. Alla manifestazione del mattino intervenivano uomini di una certa età e gente interessata a vendere o a comperare determinate cose. Era la festa tipica della gente dei campi secondo usanze antiche, perché su quella spianata erano esposti gli oggetti e gli attrezzi più impensati che facevano parte del mondo contadino.
A mano a mano che ci si avvicinava al posto si udiva un ronzio sommesso, simile a quello fatto da un’arnia in piena estate; questo poi andava via via crescendo fino a trasformarsi in chiasso, da cui emergeva ben distintamente il suono dei grammofoni a manovella che le varie giostre ed i vari baracconi avevano. Tutti a volume sostenuto; per questo quando ci s’infilava fra la folla, si doveva alzare il tono della voce per farsi capire. I venditori a loro volta gridavano a più non posso per attirare l’attenzione dei clienti. Questo frastuono non era tanto fastidioso, perché andava a spegnersi fra il verde e lungo le grandi siepi della campagna circostante. Un senso di eccitazione prendeva ogni partecipante: il venditore per la voglia di smaltire la merce esposta, il compratore per accaparrarsi l’articolo migliore. Gli uomini partivano da casa col portafoglio gonfio di carta moneta con l’intento di fare qualche buon affare; però all’osteria o in mezzo a quella ressa il “sacro” contenitore delle palanche talvolta si volatilizzava a causa dell’intervento quasi misterioso di lestofanti molto specializzati e ben esercitati nell’arte del borseggio presenti in ogni angolo quel giorno. Agivano in modo fulmineo ed impercettibile e con la stessa rapidità sapevano dileguarsi. Ogni anno si lamentavano fatti del genere. A controllare questa manifestazione non c’erano vigili o carabinieri. Ognuno si arrangiava e di conseguenza si comportava come medio gli sembrava.
Descrivere com’erano disposti i venditori e le bancarelle è quasi impossibile, perché non c’era un ordine. Gli unici punti di riferimento erano costituiti dalla chiesetta e dalla stradina vicina. In caso di cattivo tempo il posto si trasformava in un’autentica fangara o meglio in una palude dove ci si muoveva se muniti di buone sgalmare o scarponi; quelli larghi con tanto di brocche.
C’era l’angolo dove di solito si mettevano i venditori di strope, detti per questo stropari. Questo vimine, raccolto in fasci, era assai ricercato, perché serviva durante la potatura delle viti. Le più piccole e flessibili senza difetto erano pregiate e perciò ricercate. Il proprietario cercava in tutti i modi di vendere le sue strope. Gli interessati le tastavano e poi ne prendevano una; la giravano su se, stessa per saggiarne l’elasticità e alla fine domandavano il prezzo. Se questo era conveniente, ne comperavano vari mazzi, altrimenti passavano oltre. A volte si verificava qualche disputa fra i vari espositori, perché l’uno cercava di denigrare il prodotto dell’altro. Erano sceneggiate tragicomiche per i gesti ed il linguaggio che essi adoperavano. I vari tipi di vimine erano raccolti lungo il greto del Brenta.
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Più avanti s’incontrava Bepi, detto “El Rosso” dal colore dei capelli e della barba; un personaggio così singolare nell’aspetto e nei modi che sembrava venuto da un altro mondo. Aveva l’abitudine di ripetere ad ogni pié sospinto l’intercalare: “Vero a”. Era aiutato da tre, quattro figli, rossi pure loro e per di più bruttoti per la faccia ricoperta di pane, cioè di efelidi. Tutti furbi come il loro padre. Erano maestri nel loro mestiere, perché sapevano imbagolare, cioè abbindolare, i clienti, mentre correvano qua e là lungo il banco per servire meglio e più in fretta e nello stesso tempo decantavano le qualità dell’articolo richiesto. Sul banco avevano in esposizione tutti gli articoli in metallo per la casa e per i lavori dei campi, come coltelli grandi e piccoli con lama diritta o ricurva ed anche con punta tozza indispensabile per l’innesto delle piante e perfino quelli particolari per la castratura degli animali. C’erano roncole, accette, anche menare o manare, per il taglio della legna e poi seghe, segoni, quelli a due manici, quindi forbici, cesoie e mille altri articoli. In un angolo erano esposti perfino macinacaffè a mano con tanto di marchio di fabbrica: “Tre Spade”, molto noto allora e vicino c’era la tipica boccia per tostare in casa le granaglie con cui si faceva poi il caffè. Davanti al banco del Rosso si formava sempre un capannello di curiosi attirati dalla quantità e dalla varietà della merce esposta. Ma la fila dei venditori continuava lungo i margini del campo alternandosi a giostre e baracconi. Erano tanti e con i prodotti così diversi che era difficile poi ricordarli tutti. Mi veniva ogni volta il mal di testa quando ne facevo il resoconto a casa. Ed intanto si vagava qua e là per il campo cercando di non mettere i piedi nelle pozzanghere.
Altra attrazione era costituita dal banco dei cavallari, cioè dei venditori di finimenti per cavalli, come briglie, comaci (collari), cinghie d’ogni genere, selle, tiranti, redini ed altro. Ogni volta mi fermavo ad osservare le scurie, cioè le fruste; tutte fatte a mano e ricavate da un unico pollone di sassifraga tagliato nel tardo autunno ed in calar di luna e poi lavorato durante l’inverno con grande pazienza ed abilità. Dei veri capolavori, perché per rendere questo legno più elastico e resistente, il fabbricante divideva il pezzo in tre, quattro parti in forma di aste sottili appuntite e poi le intrecciava tra loro; alla fine dipingeva ogni elemento a mano con colore diverso. A vendere questo tipo di merce era un certo Nane, detto anche “El Balbo”, altra macchietta che s’incontrava a San Valentin. Quando la conversazione si animava un po’ troppo, lui si agitava perché non riusciva a seguire il discorso e ad esprimersi con una certa speditezza; allora s’innervosiva così tanto da non cavar più una parola. I muscoli della faccia si contraevano, mentre questa diventava tutta rossa.
“Che…, Che…, Che…” continuava a balbettare mentre andava su e giù con la testa. A questo punto riprendeva fiato e poi si metteva ad imprecare con se stesso. Poveretto, era fatto così! Chi aveva un cavallo si fermava da lui anche per vedere le ultime novità.
Quel giorno s’incontravano vari venditori di sementi che esponevano la loro mercanzia in sacchetti mezzi aperti perché tutti potessero veder dentro il contenuto. Gli interessati partivano da casa con la lista delle sementi da comperare. Dopo qualche mese le avrebbero adoperate nell’orto o nei campi arati. Poi era la volta di Bortolo, noto per portare gli occhiali; ma questi andavano su e giù lungo il naso a seconda se alzava o abbassava la testa. Questi era piuttosto tarchiato. Di professione scarparo, cioè calzolaio, vendeva pezzi di cuoio, scarpe, scarponi fatti tutti a mano e poi zoccoli. In una serie di scatole c’erano chiodini di tutte le dimensioni e poi brocche, brocconi, spago, pegola, cioè pece, puntali in ferro e perfino legni per sgalmare. Si trattava di suole in legno leggero ma resistente, lavorate tutte a mano. Bastava ricoprire la parte superiore con cuoio e la calzatura era bell’e pronta. A sera anche lui aveva il banco tutto vuoto.
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Ma la grande manifestazione si svolgeva nel pomeriggio: vi interveniva tutta la gioventù della zona. La fiera si trasformava in festa paesana. Era il momento più bello ed esaltante per i numerosi svaghi che l’animavano. Nelle varie bancarelle erano esposti tutti i tipi di sagra ed una montagna di dolciumi; in più c’erano spumiglie e tiramolla di tutti i colori che i venditori fabbricavano sul posto con i loro attrezzi. Un’altra attrazione era costituita dai croccanti fatti con noci, nocciole e soprattutto dai pennacchi bianchi e vaporosi dello zucchero filato. Donne, bambini, giovani, tutti sostavano per comperarsi qualcosa e così potevano gustarsi finalmente la bocca, visto che questi sfizi erano introvabili altrove. I più piccini strepitavano per avere un palloncino riempito d’aria compressa; ma, una volta in mano, questo spesso sfuggiva e così s’innalzava alto nel cielo, mentre l’interessato scoppiava in un pianto disperato. Fra madre e figlio avveniva a questo punto un vivace battibecco. Noi, che avevamo assistito alla scena, ci mettevamo a ridere, perché ogni volta si ripetevano le stesse frasi e si compivano sempre gli stessi gesti. Si trovava qualche raro banchetto di giocattoli in legno o in latta, che poi erano gli stessi che si vedevano circolare dopo la Befana. La plastica non esisteva allora; meno male. Insieme con i giocattoli si vendevano sacchettini di coriandoli, perché il carnevale era vicino.
Si pranzava presto, subito dopo ci si radunava in squadre e poi via a piedi attraverso campi. Era il momento più bello, fatto di scherzi, risate sonore, di racconti ameni ed anche di canzoni popolari. Un vero svago, un momento di spensieratezza. Ognuno si recava alla festa con in cuor suo tanti progetti, tanti sogni da realizzare. Questa tensione interiore creava in ognuno una certa ansia che ci faceva affrettare il passo. Davanti a noi si apriva una mezza giornata tutta nostra. Che bello era andare a San Valentino! Non importava se col ghiaccio o la neve. La cosa più importante era andarci.
Ci si preparava per tempo a questo grande avvenimento mettendo da parte i risparmi, le mance: quelle del “Buon Principio” del primo giorno dell’anno. Ognuno s’ingegnava a far su un gruzzoletto. Quando arrivava il momento, si era tutti euforici. Noi in famiglia, per il numero dei componenti, formavamo squadra per conto nostro; a volte si univano ragazzi delle corti vicine e poi tutti insieme ci dirigevamo verso Scaldaferro; e da lì si era subito sul posto. Ci impiegavamo un tre quarti d’ora. Ogni volta era un’avventura. Durante l’inverno le mie sorelle riuscivano a mettere da parte un mucchietto di monetine metalliche. Le nascondevano in un sacchettino di tela preparato apposta. Un anno, prima della partenza, la mamma ci fece le solite raccomandazioni contro i ladri, che per noi erano gli zingari.
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Gli zingari a San Valentino erano una vera calamità perché sempre presenti ed attivi. Destrezza, scaltrezza ed avvedutezza erano le qualità più spiccate, che mettevano bene a frutto in questa festa campagnola. Le donne dalla gonna lunga e molta larga ronzavano da tutte le parti non per chiedere la carità ma per cogliere qualche ingenuo con la scusa di leggergli la mano e poi spennarlo bene.
La sagra di San Valentino era nota per le naranse, cioèle arance, e per le fave. Le prime erano il frutto della stagione perché belle, grosse, sugose, mentre le seconde costituivano la novità o meglio l’attrazione della festa. Arrivate direttamente dal sud d’Italia, quest’ultime venivano qui vendute cotte in acqua salata, che dicevano di mare. Avevano la consistenza di un fagiolo bianco appiattito. Il venditore le tirava fuori direttamente dal sacco con un mestolo ancor umide e poi le versava in un cartoccio a seconda dei soldi che l’acquirente presentava. Durante la festa tutti avevano a che fare con quei cosi bianchi che prima spellavano e poi cacciavano in bocca. Si vedeva dovunque gente intenta a ruminare quel legume che, a dir la verità, per me aveva un gusto piuttosto insipido.
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Quando andavamo alla festa, ci precipitavamo subito dalle naransare:due sorelle fruttivendole che costituivano una vera curiosità in quanto avevano una faccia piuttosto pienozza e rossa come il frutto che vendevano. Troneggiavano davanti a mucchi di arance con cappello in testa e grembiulone sul davanti. Avevano però un difettino: bisognava stare bene attenti, perché, quando le arance venivano poste sulla bilancia, il peso dichiarato era sempre superiore a quello che l’ago della bilancia stabiliva; nonostante questo facevano affari d’oro. Il desiderio di gustare quel frutto tanto desiderato era troppo grande. Quando lo si aveva in mano, lo si mangiava tutt’intero, compresa la buccia, che poi lasciava sulla lingua un certo pizzicore. Allora non si sapeva che cos’erano gli anticrittogamici, perché non erano ancora arrivati dalla Merica.
Se si avanzava qualche centesimo, lo si spendeva in spaghi di liquirizia, in bastoncini di dulcamara, in bagigi, carrube, straccaganasce o in zucchero filato. Al centro del campo sostavano due carretti: sull’uno si produceva lo zucchero filato entro un imbuto di latta che ruotava vertiginosamente su se stesso, mentre sull’altro la tiramolla: un miscuglio di melassa e zucchero fusi insieme in una boccia rovente. Di tanto in tanto l’uomo estraeva parte di quella pasta biancastra e cominciava subito a lavorarla fino a trasformarla in tanti spaghi lunghi che poi tagliava in pezzi pronti per la vendita. Questi erano i dolciumi e gli svaghi di cui noi poverelli ci accontentavamo, perché erano un diversivo al solito menu ed una novità che trovavamo solo a San Valentino. Il più delle volte non si arrivava a comperarci un pezzetto di tiramolla, un vero sfizio, perché i dindini, detti anche bessi, baiocchi, svanziche, erano volati via e la tasca era completamente vuota. Non ci restava che fare qualche giro per il grande prato, immersi in quel baccano infernale, per osservare da vicino le varie attrazioni con tanto di occhi sbarrati ed un desiderio irrefrenabile interiore verso tutte quelle cose. In questo modo, quando si era a casa, ci si vantava di aver visto tante robe nuove ed anche persone dall’abbigliamento insolito, perché tutto ciò che era diverso da noi e dal nostro mondo costituiva una curiosità e quindi oggetto di lunghe discussioni in casa e a filò.
I più grandi, che avevano qualcosa di più di noi nella loro musina (salvadanaio), si permettevano qualche giro in giostra. In genere andavano su quella delle careghete, detta anche dei calcinculo, perché, quando girava, i più bravi si divertivano nel dare spinte così forti al proprio seggiolino da raggiungere quello che li precedeva colpendolo con una certa violenza. Lo facevano per divertirsi e per mostrare al pubblico sottostante la loro bravura; ma colui che riceveva un simile complimento non sempre era contento. Ogni volta che andavo a San Valentino si ripeteva una scena tragicomica in cui i ragazzini più indisposti, nel vedersi girare sospesi nell’aria, erano ben presto presi dalla paura e dalle vertigini che provocavano uno scombussolamento generale con conati di vomito. E così si vedeva il poverino, bianco come un cencio e con le mani davanti alla bocca, che ad un certo punto disseminava certe strane cosette colorate sopra le teste dei presenti che, accortisi dell’inconveniente, fuggivano da tutte le parti fra grida d’imprecazione, d’orrore e sonore risate. A volte il divertimento si concludeva con qualcosa di più tragico, come un dente rotto a causa della violenza del colpo ricevuto da dietro.
“Te gavevo dito de no andare su. Ecco cossa che te ghe ciapà! Chi xé sta?” diceva la madre al piccolo infortunato.
“Xé sta quelo là”. E, mentre così rispondeva, si girava per indicare il responsabile, ma costui si era dileguato da un bel po’.
La giostra delle gabbie, poi, era riservata ai più esperti e forzuti, perché, grazie al coordinamento della spinta impressa dalle braccia insieme con quella delle gambe, riuscivano a far ruotare la gabbia su se stessa, facendo così il “giro della morte”, e poi continuavano in questo divertimento anche mezz’ora. Non mancavano mai i baracconi col tiro a segno con fucile ad aria compressa e poi il lancio del peso: una specie di misuratore della forza impressa da un potente pugno su una staffa metallica. Ma la sagra di San Valentino aveva sul piano affettivo e relazionale per molti giovani una funzione fondamentale di primaria importanza perché occasione preziosa per fare nuove conoscenze e per allacciare rapporti con l’altro sesso che spesso si concludevano in chiesa davanti all’altare, cioè molti ci andavano per trovarsi il moroso o la morosa.
Che festa indimenticabile quella di San Valentino!
Ogni anno a quella data giovani ed anziani si ritrovavano su quello spiazzo erboso per rinnovare un rito che si perdeva nella notte dei tempi però sempre con un certo entusiasmo e tante speranze. Ma al calar del sole, cioè poco prima delle diciassette, al suon dell’Ave Maria, tutta quella folla che si era assiepata durante la giornata in quel luogo, si era già dileguata e così ogni frastuono era scomparso; e su quel campo di battaglia era ritornato ormai il silenzio; proprio come voleva la tradizione.
E così dopo ogni San Valentino la vita in paese riprendeva con maggiore slancio sollecitata dal desiderio e dalle premesse di una nuova e più prosperosa stagione, ricca di messi e di tante soddisfazioni nel lavoro dei campi: punto di riferimento di ogni attività produttiva».
La Fiera di S. Valentino, durante i primi anni della meccanizzazione, era famosa non tanto per i grossi macchinari fabbricati dalle grandi industrie ma soprattutto per certi «trabiccoli» fatti in casa frutto dell’ingegno e dell’acume di piccoli artigiani e degli stessi coltivatori che mettevano a frutto la loro esperienza. Tra questi «trabiccoli» spiccava la celebre «derivata carioca», una specie di trattore appositamente concepito per la lavorazione dei campi e la raccolta del fieno. Il nome «derivata» trae origine dal fatto che, agli inizi, tali macchinari! erano costituiti da vecchissimi camioncini (dei primi del secolo) ai quali veniva demoltiplicata la trasmissione allo scopo di aumentare la potenza; se si adattava anche un semplice dispositivo potevano funzionare anche a petrolio agricolo. Erano l’ideale in zone erbose pianeggianti ed erano usati per trainare le falciatrici e trasportare fieno. | LA «DERIVATA CARIOCA» |
Il perché dell’appellativo «carioca» non ci è dato sapere ma si ritiene che forse potrebbe essere la storpiatura del nome di qualche famosa marca. |